33 testi e traduzione
Era il 2008, avevo trentatré anni e a quell’età si deve morire. Inizia il tramonto di quel che sei, o credi di essere. Si deve, non solo aver detto tutto, ma anche essersi disfatto di questo tutto. Diversamente, diventi ostaggio della volontà, del talento, del canone, della caricatura di te.
Ed effettivamente, col progetto Inchiuvatu, avevo detto tutto quel che c’era da dire con album come: Addisìu, Viogna, Piccatu e in fine, Miseria, che altro, non vi basta? Ce n’è per almeno altri trentatrè anni.
A quel punto, nel disfarmi, intrapresi ancora l’analisi dell’Uomo attraverso altre considerazioni e partendo proprio da me stesso bambino, dal mio anno zero. Ritornare e ripartire dalle strade che avevo percorso nella mia Sicilia, dai personaggi che mi avevano ispirato e terrorizzato. Da mia nonna Angela alla za Rusidda piscia ogghiu (Rosina urina olio), da Affonsa cu’ occhiu (Alfonsa la guercia) a Gnazidda la foddi (Ignazina la folle). Dalle grotte dei caricatori (i granai per i romani) alle impervie alture sicane. Insomma, tiro una linea, le somme per dirla facile. Dovevo issare la mia croce nella mia personale via crucis, utilizzare ancora un supporto drammaturgico, e chi meglio del Cristo poteva darmelo? In fondo, non sono io il christus? L’Unto con l’olio aromatico dell’oleastro Inveges? Lo Zarathustra della Kiana? Ogni cosa non parla forse di me e della mia pena di essere? Ebbene, sempre fedele all’opera, in cinque atti, nasce la Pentalogia Vaddaòmu che ripercorre, e fa i conti, con il fatto e il disfatto.
In queste liriche racconto il mio esservi arrivato vergine a trentatrè anni. L’aver mancato l’Estasi della Santa Cecilia, della Beata Ludovica Albertoni. L’essere uomo, un capolavoro ma del tutto simile alla Pietà Rondanini. Trentatrè tramonti e non altrettanti sorgere di questi soli splendenti e carichi di vita. Solo spine e chiodi, anch’essi significativamente di numero, come gli anni del Cristo (che in realtà ne avrebbe avuti 36/37). "Trentatrè spine ho raccolto nel cuore germogliate con lacrime amare. Trentatrè chiodi piantati nelle mani non mi tengono in croce e attendo di cadere." Ti si para davanti un sentiero sempre più scosceso e il piede malfermo, complice l’istinto di sopravvivenza, ti frena dal percorrerlo. Di colpo t’accorgi che il tuo strumento, il traditore, l’esaltatore della falsità oggettiva, comincia a ripudiarti. Malattia, decadenza fisica, vecchiaia, l’aver oltrepassato il limes della gioventù, tutto diventa tristemente meridionale. L’immortalità non è di questa vita, ma sulla prossima è un totale atto di cieca fiducia. L’abisso si mostra, attira il tuo sguardo, che fare, rischiare, scrutarlo? ma anche lui vorrà poi guardare in te – Nietzsche.
Tutto cambia, il nuovo sole è sempre più tiepido, il mattino ha l’amaro in bocca: "Un tramonto che mai più sorge e che si perde nel mare profondo, un bambino senza più pianto e che contento si scava il suo abisso."
E poi una bambina, che ricordo ancora dai sotterranei della scuola, ti guarda già come un vecchio relitto. È suo il mondo, sembra voler dire nel suo sguardo innocente (futura puttanella!). Incarna la mia parte femminile che mi evoca ancora, vuole vibrare, ricongiungersi nella totalità di spirito e carne. Se ne fotte di ciò che appassisce, si nutre di metafisica: "Si spoglia il mio cuore, ti cerco dentro di me, sento il tuo sospiro, il fuoco mi stringe a te. Nuda rimani dentro me, la tua carne si fa la mia, sento che divampa di piacere e in un fuoco mi unisce a te." La mia volontà insiste e persiste, e arriva alla realizzazione del pornòs: pura contemplazione oggettiva, riflesso nell’altro della mia follia. E lei che può aiutare questo palombaro, farlo scendere nelle oscure profondità e poi riportarlo alla ragione: "Nuda, finalmente nuda, ai miei occhi di te vestita". Giunge l’eterno femminino di Goethe: "Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé."
Finalmente mi libero da questa imbarazzante verginità. Ma la realizzazione di un desiderio (un addisìu) non è che preludio di un ritorno al mare calmo e alla noia schopenhaueriana. All’orizzonte, poiché per un attimo ho ceduto alle carezze del velo di maya, ecco annunciarsi la tempesta. Nuovamente il tuo cielo si riempie di tuoni e lampi: "Tuona nel cuore più profondo e il cielo si riempie di chiodi e pianto. Aspetti invano che spunti il sole ma tuona e un lampo ti incenerisce l'amore." Nuovamente gli occhi ti si gonfiano di pianto: "Pianto una spina nel petto che spero germoglierà rosa. Pianto una stella in cielo e seguendola ricomincio a desiderare. Piango, che niente lava, questo pianto sporco non finisce mai. Pianto dagli occhi scende ma niente lava ma è ciò che vuoi." Lacrime che, nell’eccezione sicula assume due significati… Chiantu: pianto, da piangere, e chiantu: pianto, da piantare… cosa? Trentatrè chiodi, mi pare evidente.
- agghiastru
I N C H I U V A T U 3 3
3 3
F U N N U
N U R A
T R U N I A
C H I A N T U |
3 3 Trentatrè chiodi piantati nella schiena
A B I S S O (letteralmente fondo)
N U D A
T U O N A
P I A N T O
|